La Convenzione di salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali è stata elaborata nell’ambito del Consiglio d’Europa. Aperta alla firma a Roma il 4 novembre 1950, è entrata in vigore nel settembre del 1953. Nelle intenzioni dei suoi autori, si trattava di adottare le prime misure atte ad assicurare la garanzia collettiva di alcuni dei diritti previsti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948. La Convenzione contempla, infatti, principi cardine come il rispetto della persona e della proprietà, la garanzia di un giusto (e rapido) processo, etc.
Si tratta di un’ autentica “Magna Charta”, destinata a sancire i caratteri comuni della cittadinanza in paesi che hanno tradizioni e culture giuridiche diverse.
Ogni Stato contraente (nel caso di un ricorso inter-statale) o individuo che si ritenga vittima di una violazione della Convenzione (nel caso di un ricorso individuale) può inoltrare direttamente alla Corte di Strasburgo un ricorso che lamenti una violazione da parte di uno Stato contraente di uno dei diritti garantiti dalla Convenzione.
La Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali è stata resa esecutiva in Italia con L. 4 agosto 1955, n. 848.
Le norme della Convenzione nonché quelle del Primo Protocollo addizionale, salvo quelle il cui contenuto sia da considerarsi così generico da non delineare specie sufficientemente puntualizzate, hanno carattere precettivo e sono, quindi, di immediata applicazione nel nostro ordinamento.
Esse non possono essere abrogate da successive disposizioni di legge interna, derivando da una fonte riconducibile ad una competenza atipica e – come tali – insuscettibili di modificazioni da parte di disposizioni di legge ordinaria (cfr., in tal senso, C. Cost. sent. 19 gennaio 1993, n. 10; Cass. sent. 8 luglio 1998, n. 6672).
La giurisprudenza (cfr. Cass. sent. 23 novembre 1988) ha affermato che la “precettività” delle norme della Convenzione è la diretta conseguenza del principio di adattamento del diritto italiano al diritto convenzionale onde, ove l’atto o il fatto normativo internazionale contenga il modello di un atto interno completo nei suoi elementi essenziali, tale cioè da poter senz’altro creare obblighi e diritti, l’adozione interna del modello di origine internazionale è automatica (c.d. adattamento automatico).
Essa è pervenuta a tale conclusione sulla base della formulazione letterale degli artt. 1 e 13 della Convenzione (cfr., in tal senso, Cass. sentt. 7 dicembre 1981; 20 aprile 1982; 27 ottobre 1984), nei quali si specifica: “le Altre Parti riconoscono”, e non già “si impegnano a riconoscere”, come figurava nella prima stesura del progetto di convenzione.
È stato, altresì, posto in rilievo che l’immediata applicabilità delle predette disposizioni trova conferma nell’art. 13, che, riconoscendo, nella ipotesi di violazione della Convenzione, il diritto ad agire in giudizio, tutela direttamente nell’ordinamento interno le posizioni soggettive delineate dalle norme della Convenzione medesima.
Le Sezioni Unite, con sentenza 23 novembre 1988, hanno, poi, precisato che la immediata applicabilità trova un ulteriore sicuro fondamento nei principi sanciti dagli artt. 10 e 11 della Costituzione che prescrivono, tramite una limitazione della sovranità nazionale, l’adattamento del diritto italiano al diritto internazionale.
Anche la Cassazione civile, con sentenza 10 luglio 1991 n. 7662, ha ribadito la diretta applicabilità nell’ordinamento interno dell’art. 6 della Convenzione.
La Corte Costituzionale, parimenti, con sentenza n. 183/1973, ha riconosciuto l’efficacia obbligatoria e diretta della norma comunitaria nell’ordinamento interno nonché la prevalenza delle norme comunitarie sulla legislazione interna in base all’art. 11 della Costituzione, che prevede l’adeguamento del diritto interno al diritto internazionale convenzionale tramite la limitazione della sovranità dello Stato.
Accertato che le norme della Convenzione e dell’allegato Protocollo hanno carattere precettivo e, quindi, trovano immediata applicazione nell’ordinamento italiano, è necessario stabilire il meccanismo attraverso il quale si attua siffatta prevalenza nell’ipotesi di contrasto fra norme interne e norme comunitarie.
Il richiamato art. 11 della Costituzione delinea a favore dell’ordinamento comunitario una limitazione della sovranità nazionale e non la radicale soppressione della stessa.
Pertanto, i due sistemi (diritto interno e comunitario) sono configurati come autonomi e distinti, ancorché coordinati secondo la ripartizione di competenze stabilita e garantita dal trattato onde le norme comunitarie rimangono estranee al sistema delle fonti interne e non possono essere valutate secondo gli schemi predisposti per la soluzione dei conflitti fra norme del nostro ordinamento.
In particolare, non è configurabile un rapporto di gerarchia tra fonti comunitarie ed interne, di modo che, in caso di conflitto, le prime non possono abrogare o invalidare le seconde, come, invece, avverrebbe se i due ordinamenti non rimanessero distinti ma fossero composti ad unità.
Secondo la Corte Costituzionale (cfr. sent. n. 389/1989), l’eventuale conflitto fra diritto comunitario direttamente applicabile e diritto interno proprio, poiché presuppone un contrasto di quest’ultimo con una norma prodotta da una fonte esterna avente un suo proprio regime giuridico ed abilitata a produrre diritto nell’ordinamento nazionale entro un proprio distinto ambito di competenza, non dà luogo ad ipotesi di abrogazione o di deroga, né a forme di caducazione o di annullamento per invalidità della norma interna incompatibile, ma produce un effetto di disapplicazione di quest’ultima, seppure nei limiti di tempo e nell’ambito materiale entro cui le competenze comunitarie sono legittimate a svolgersi.
I principi esposti in tema di coordinamento fra diritto interno e diritto comunitario sono stati ripetutamente ribaditi dalla Corte Costituzionale con le sentenze nn. 183/1973, 170/1984, 389/1989.
In particolare, la tesi secondo cui il contrasto fra norma comunitaria e norma interna è oggetto di un controllo diffuso demandato ai giudici nazionali – ordinari e speciali – trova puntuale precisazione nella sentenza n. 170/1984 in cui si afferma testualmente che l’effetto connesso alla vigenza della norma comunitaria è quello non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile bensì di impedire che la norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale. Il regolamento comunitario va, dunque, sempre applicato, sia che segua sia che preceda nel tempo le leggi ordinarie con esso incompatibili: e il giudice nazionale investito della relativa applicazione potrà giovarsi dell’ausilio che gli offre lo strumento della questione pregiudiziale di interpretazione, ai sensi dell’art. 177 del Trattato.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con le sentenze n. 1338 (Balzini), n. 1339 (Lepore), n. 1340 (Corbo), n. 1341 (Lepore), tutte del 26 gennaio 2004, hanno riconosciuto la prevalenza e la diretta applicabilità nell’ordinamento giuridico italiano della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo.
Il giudice di legittimità ha, infatti, osservato che: ai fini della liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89, l’ambito della valutazione equitativa, affidato al giudice del merito, è segnato dal rispetto della convenzione europea dei diritti dell’uomo, per come essa vive nelle decisioni, da parte della corte europea dei diritti dell’uomo, di casi simili a quello portato all’esame del giudice nazionale, di tal che è configurabile, in capo al giudice del merito, un obbligo di tener conto dei criteri di determinazione della riparazione applicati alla corte europea, pur conservando egli un margine di valutazione che gli consente di discostarsi, purché in misura ragionevole, dalle liquidazioni effettuate da quella corte in casi simili; tale regola di conformazione, inerendo ai rapporti tra la citata legge e la convenzione ed essendo espressione dell’obbligo della giurisdizione nazionale di interpretare ed applicare il diritto interno, per quanto possibile, conformemente alla convenzione e alla giurisprudenza di Strasburgo, ha natura giuridica, onde il mancato rispetto di essa da parte del giudice del merito concretizza il vizio di violazione di legge, denunziabile dinanzi alla corte di cassazione; l’accertamento dei casi simili e delle eque soddisfazioni del danno non patrimoniale in essi operate dalla corte di Strasburgo, pur rientrando nei doveri d’ufficio del giudice, può giovarsi della collaborazione delle parti, ed in particolare dell’attore, che ha interesse a fornire al giudicante ogni elemento utile alla determinazione del quantum del danno nella misura da lui chiesta, anche nelle ipotesi in cui non sia configurabile a suo carico un onere probatorio (cfr. Cass., SS.UU., 26-01-2004, n. 1340).
L’applicazione degli esposti principi comporta che, nel caso di conflitto tra norma comunitaria e norma interna incompatibile, quest’ultima non viene annullata o abrogata, ma unicamente “neutralizzata”, cioè, resa temporaneamente inapplicabile finché la materia da essa regolata rimane di competenza della fonte comunitaria.
All’accertamento ed alla dichiarazione di siffatta inapplicabilità non provvede la Corte Costituzionale, cui è demandato l’annullamento degli atti legislativi interni contrastanti con la Carta fondamentale, e che opera, pertanto, nel diverso campo dei rapporti di gerarchia fra norme appartenenti al medesimo ordinamento, ma lo stesso giudice competente a conoscere della controversia nella quale la incompatibilità viene rilevata.
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