L’in house providing, traducibile letteralmente come “fornitura interna o all’interno (di un medesimo soggetto)” è un modello di organizzazione e gestione dei servizi pubblici che le amministrazioni pubbliche adottano attraverso organismi propri, senza ricorrere a ditte private.
La figura dell’ in house providing ha origine nel Regno Unito: la pubblica amministrazione, trovandosi nella necessità di approvvigionarsi di beni, servizi, forniture, esecuzione di lavori e di opere, esercizio di funzioni pubbliche o erogazioni di servizi, deve operare una scelta fra la possibilità di rivolgersi all’esterno (c.d. contracting out), oppure soddisfare le proprie esigenze, attraverso soggetti interni. L’amministrazione appaltante è tenuta ad instaurare un confronto concorrenziale tra l’offerente interno e gli offerenti esterni, garantendo a questi ultimi la parità di trattamento.
In ambito comunitario, la locuzione in house contract è stata utilizzata per la prima volta, nella Comunicazione della Commissione (98) 143, Libro Bianco sugli appalti pubblici nell’Unione Europea. In tale documento gli in house contract vengono definiti:”contratti aggiudicati all’interno della pubblica amministrazione, ad esempio tra un’amministrazione centrale e le amministrazioni locali ovvero tra un’amministrazione ed una società da questa interamente controllata”.
In seguito, un contributo determinante alla definizione dell’istituto de quo, è venuto dalla Corte di Giustizia Europea, la quale, nella sentenza 18 novembre 1999, causa C-107/98, Teckal S.R.L. c. Comune di Aviano, ha individuato i caratteri peculiari dell’in house providing nell’assenza di un rapporto contrattuale tra l’amministrazione aggiudicatrice e l’ente destinatario dell’affidamento, atteso che la prima esercita sul secondo un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, e l’ente prestatore del servizio realizza la parte più rilevante della sua attività con l’ente (o gli enti) che lo controllano.
La Corte di Giustizia era stata chiamata a pronunciarsi sulla interpretazione dell’art. 6 della direttiva 92/50/CEE sugli appalti pubblici di servizi, secondo cui le norme della stessa direttiva non si applicano agli appalti pubblici di servizi aggiudicati ad un ente che sia esso stesso un’amministrazione ai sensi dell’art. 1, lettera b), in base ad un diritto esclusivo di cui beneficia in virtù delle disposizioni legislative, regolamentari od amministrative pubblicate, purchè tali disposizioni siano compatibili con il Trattato.
L’art 1, lett b) definisce:
Amministrazioni aggiudicatici, lo Stato, gli enti locali, gli organismi di diritto pubblico e le associazioni costituite da detti od organismi di diritto pubblico;
Organismi di diritto pubblico, qualsiasi organismo istituito per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale, avente personalità giuridica e la cui attività è finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti locali o da organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione è soggetta al controllo di questi ultimi, oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza è costituito da membri più della metà dei quali è designata dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico.
La questione era stata sollevata nell’ambito di una controversia relativa all’affidamento diretto della gestione del servizio di riscaldamento di alcuni edifici di proprietà del Comune di Aviano. Quest’ultimo, senza instaurare alcun tipo di confronto concorrenziale mediante l’indizione di una gara, aveva affidato il servizio in parola ad un consorzio dotato di personalità giuridica e costituito da alcuni comuni, tra i quali la stessa amministrazione aggiudicatrice.
La Corte era chiamata a stabilire, preliminarmente, se la normativa applicabile al caso in oggetto, fosse la direttiva 92/50/CEE, ovvero la direttiva 93/36/CEE inerente gli appalti pubblici di forniture. Il giudice, ove avesse ritenuto applicabile la direttiva 92/50/CEE, avrebbe poi dovuto accertare se il consorzio potesse essere considerato amministrazione aggiudicatrice ai sensi dei citati artt. 6 ed 1, lett. b) della direttiva.
La Corte rilevò che, attesa la preponderanza quantitativa della fornitura dei beni –il combustibile – rispetto ai servizi, la direttiva applicabile era la 93/36/CEE. Poiché in quest’ultima non era rinvenibile alcuna norma di tenore analogo all’art. 6 della direttiva 92/50/CEE, la Corte argomentava che per stabilire se l’affidamento della fornitura di beni da parte di un ente locale ad un consorzio partecipato dallo stesso ente, andasse disciplinato in base alla procedura di gara prevista dalla direttiva 93/36/CEE, occorreva accertare se una siffatta ipotesi configurasse o meno un appalto pubblico di forniture, ovverosia se esistesse un contratto tra l’ente pubblico ed il soggetto terzo, originatosi dall’incontro di due volontà distinte.
I giudici di Bruxelles, dopo aver premesso che, ai sensi dell’art. 1, lettera a) della Direttiva 93/36, un rapporto contrattuale può sorgere soltanto se esso venga stipulato “da una parte, da un ente locale e, dall’altra, da una persona giuridicamente distinta da quest’ultima”, provvedeva ad individuare i due presupposti in base ai quali è possibile parlare legittimamente di affidamento in house:
L’amministrazione aggiudicatrice deve esercitare sulla persona giuridica destinataria un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi;
l’ente affidatario deve realizzare la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti che la controllano.
La trasposizione della figura dell’appalto in house nell’ordinamento nazionale è avvenuta, dapprima, con una circolare del ministero per l’attuazione delle politiche comunitarie, in risposta ad una procedura d’infrazione avviata dalla Commissione nei confronti del nostro Paese e, successivamente, attraverso l’intervento del Legislatore, che l’ha espressamente introdotta nel nostro Ordinamento, all’art. 113 del D.Lgs 267/2000 (Testo Unico Enti Locali), come modificato, prima, dall’art. 35 della L. 448/2001, successivamente dall’art. 14 del D.L. n. 269, convertito in L. n. 326/2003, poi dall’art. 4 L. n. 350/2003 e, da ultimo, dall’art. 1, comma 48, L. n. 308/2004.
L’articolo in parola consente di affidare direttamente il servizio a società a capitale misto pubblico-privato nelle quali il socio privato sia scelto attraverso gare ad evidenza pubblica, o a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.
La giurisprudenza comunitaria e nazionale si è più volte pronunciata sul concetto di “controllo analogo”, al fine di stabilire che cosa dovesse intendersi con tale termine.
L’attuale orientamento del giudice comunitario è nel senso di ritenere sussistente il controllo analogo ove tra società controllante e società controllata il rapporto di terzietà sia solo formale, mentre – di fatto – la prima esercita sulla seconda un assoluto potere di direzione, coordinamento e supervisione riguardo i più importanti atti di gestione del soggetto controllato (cfr. Corte di Giustizia Europea, 18 novembre 1999, causa C-107/98). Tale conclusione è stata successivamente confermata dai giudici di Bruxelles, ad opinione dei quali “[…] deve risultare che l’ente concessionario in questione è soggetto ad un controllo che consente all’autorità pubblica concedente di influenzarne le decisioni. Deve trattarsi di una possibilità di influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti […]”(cfr. Corte di Giustizia Europea, 13 ottobre 2005, causa C-458/03).
La giurisprudenza nazionale si è sostanzialmente adeguata all’indirizzo del giudice europeo.
È stato sottolineato, in particolare, che la gestione del servizio deve restare saldamente nelle mani dell’ente concedente attraverso un controllo gestionale e finanziario stringente sull’attività della società affidataria che, a sua volta, è istituzionalmente destinata ad operare in modo assorbente in favore di questo (cfr. C.d.S., sez. VI, 25 gennaio 2005, n. 168; T.A.R. Campania, 30 marzo 2005, n. 2748; T.A.R. Sardegna, 2 agosto 2005, n. 1729).
Il giudice amministrativo (cfr. T.A.R. Friuli, 12 dicembre 2005, n. 986) ha, peraltro, analiticamente indicato gli elementi in presenza dei quali deve ritenersi sussistente il “controllo analogo”:
consultazione tra gli enti associati circa la gestione dei servizi pubblici svolti dalla società, circa il suo andamento generale, e, soprattutto, circa le concrete scelte operative, attraverso l’audizione frequente del Presidente e del Direttore Generale;
modifiche dello Statuto della Società, previo invio ai singoli enti locali per gli adempimenti di competenza;
consenso degli enti associati all’eventuale esercizio di attività particolari;
controllo, mediante una Commissione, dello stato di attuazione degli obiettivi, anche sotto il profilo dell’efficacia, efficienza ed economicità della gestione, con successiva relazione all’Assemblea degli azionisti;
ispezione diretta da parte dei soci.
La Corte di Giustizia, in seguito al moltiplicarsi degli affidamenti diretti di servizi, forniture e lavori da parte delle pubbliche amministrazioni, a scapito delle procedure ad evidenza pubblica stabilite nelle direttive comunitarie, è più volte intervenuta allo scopo di ricondurre il fenomeno dell’affidamento diretto ad una dimensione fisiologica.
Il giudice europeo ha infatti affermato:”le disposizioni […] che autorizzano deroghe alle norme miranti a garantire l’efficacia dei diritti conferiti dal Trattato nel settore degli appalti pubblici di servizi, devono essere interpretate restrittivamente e che l’onere di dimostrare l’effettiva sussistenza delle circostanze eccezionali che giustificano una deroga gravano su colui che intenda avvalersene”, aggiungendo poi che “il rischio di una violazione del principio di non discriminazione è particolarmente elevato qualora un’amministrazione aggiudicatrice decida di non assoggettare un determinato appalto alla concorrenza” (cfr. Corte di Giustizia Europea, 10 aprile 2003, cause riunite C-20701 C-28/01).
Tale orientamento, sostanzialmente contrario alla possibilità di ricorrere ordinariamente – e non solo in via eccezionale – all’affidamento diretto, in alternativa alle procedure ad evidenza pubblica, è stata successivamente confermato nella sentenza 11 gennaio 2005, causa C-26/03, Stadt Halle e RPL Lochau GmbH c. TREA Leuna, sottolinenando così la volontà delle istituzioni comunitarie di
impedire l’utilizzo indiscriminato di pratiche potenzialmente distorsive delle regole del libero mercato.
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