La legge 27 luglio 2000, n. 212, pubblicata sulla G.U. 31.7.2000, n. 177 e recante “Disposizioni in materia di Statuto dei diritti del contribuente” ha introdotto una serie molto ampia di vincoli, sia nei confronti del Legislatore (chiarezza e trasparenza delle disposizioni legislative, esclusione della prassi delle c.d. “norme intruse”, irretroattività delle norme tributarie, “neutralità” dei primi 90 giorni ai fini dell’entrata in vigore di nuovi adempimenti, divieto di decreti-legge per l’istituzione di nuovi tributi) sia nei confronti dell’amministrazione finanziaria. In realtà, se appare legittimo nutrire dubbi sul ruolo che potrà svolgere lo Statuto come vincolo per l’attività di produzione legislativa, la parte sicuramente più rilevante di questo provvedimento appare quella che stabilisce vincoli per l’amministrazione affermando, nel contempo, corrispondenti diritti in capo al contribuente. Si tratta dei diritti alla tutela dell’integrità patrimoniale, al rispetto della buona fede, alla certezza del diritto, alla difesa da parte di organismi terzi. Si tratta, in una parola, di diritti attraverso i quali viene a scomparire la posizione di sudditanza istituzionale del cittadino-contribuente, analogamente a quanto avvenuto nel corso degli ultimi anni nell’ambito delle procedure e dei giudizi soggetti alle norme di diritto amministrativo. E’ tuttavia innegabile il ruolo svolto dalla giurisprudenza nel valorizzare le disposizioni ivi contenute, sottolinenandone la precipua funzione assiologia ed il preminente ruolo nell’ambito delle fonti giuridiche dell’Ordinamento. L’art. 1, comma 1, dello Statuto del contribuente, recita: “Le disposizioni della presenta legge, in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali”. La Corte di Cassazione, intervenuta sul punto, ha ritenuto che alle clausole de quibus debba essere attribuito un preciso valore normativo, idoneo a determinare la “superiorità assiologia” dei principi espressi o desumibili dalle disposizioni statutarie (Cfr. Cass. n. 17576 del 10 dicembre 2002). In particolare, proprio la locuzione “principi generali dell’ordinamento tributario” sarebbe sinteticamente espressiva di quattro distinti significati: di “principi generali del diritto, dell’azione amministrativa e dell’ordinamento particolare tributari”, di “principi fondamentali della legislazione tributaria”, di “principi fondamentali della materia tributaria” per quanto riguarda l’esercizio della potestà legislativa concorrente ad opera delle Regioni – in accordo con quanto affermato dalla Corte costituzionale (da ultimo, con le sentenze 282 e 533/2002) in relazione alla possibilità di desumere tali principi fondamentali dalla legislazione statale vigente -, nonché quello di “norme fondamentali di grande riforma economico sociale” quale limite – ritenuto quindi dalla Corte di Cassazione ancora sussistente pur in seguito all’entrata in vigore della l. cost. 3/2001 (come d’altronde in una occasione affermato anche dalla Corte Costituzionale, sent. n. 536/2002) – all’esercizio della potestà legislativa esclusiva da parte delle Regioni ad autonomia speciale e delle Province autonome. L’individuazione di un tale valore normativo dei principi espressi o direttamente desumibili dal testo dello Statuto comporta di conseguenza, ad avviso della Suprema Corte, una “funzione di orientamento ermeneutico” degli stessi tale per cui “il dubbio interpretativo o applicativo sul significato e sulla portata di qualsiasi disposizione tributaria, che attenga ad ambiti materiali disciplinati dalla legge n. 212 del 2000, deve essere risolto dall’interprete nel senso più conforme ai principi statutari”: e questo sia perché l’interpretazione conforme a Statuto, in forza di quanto previsto dall’art. 1, comma 1, sopra citato, si tradurrebbe automaticamente in una verfassungskonforme Auslegung, sia perché tale carattere attuativo proprio di alcuni principi statutari comporterebbe, giusto in forza del canone dell’ “interpretazione adeguatrice” a Costituzione, una loro “immanenza” nell’ordinamento anche prima dell’entrata in vigore dello Statuto. La Corte procede quindi distinguendo, all’interno delle disposizioni statutarie, tra quelle che si limitano ad innovare il corpus della legislazione tributaria preesistente – in relazione alle quali non si pone alcun problema di “immanenza” nei termini sopra descritti – e quelle che, proprio perché espressive di principi di stretta derivazione costituzionale, non fanno altro che renderli espliciti a livello legislativo: e proprio a questo secondo gruppo di disposizioni appartengono quelle di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 10 dello Statuto. In particolare, il principio della collaborazione e della buona fede, espressione dei principi di imparzialità, efficienza e buon andamento dell’amministrazione (art. 97, comma 1, Cost.) nonché del concorso di ognuno alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva (art. 53, comma 1, Cost.), viene ricollegato all’esigenza di un’azione amministrativa informata a criteri di coerenza e di non contraddittorietà: in quest’ottica, anche il principio della tutela dell’affidamento del contribuente – al di là delle due fattispecie disciplinate dal secondo comma dell’art. 10 dello Statuto, ritenute dalla Corte “meramente esplicative” – appare uno svolgimento di quest’ultimo principio, in quanto suo riflesso nella sfera soggettiva del contribuente che si sia adeguato – appunto, in buona fede – ad una situazione di apparente legittimità e coerenza dell’attività amministrativa tributaria. Inoltre, proprio in relazione alla tutela del “legittimo affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica”, il Collegio ricorda, tra l’altro, come la Corte Costituzionale (ex pluribus con le sentt. 525/2000 e 416/99) abbia inteso questo principio, quale “elemento essenziale dello stato di diritto”, come un limite all’efficacia retroattiva delle leggi interpretative in base all’art. 3, comma 1, Cost. sub specie del rispetto del canone della ragionevolezza: e se un tale principio rappresenta un limite all’operato del legislatore, a fortiori dovrà essere applicato, sia dall’amministrazione finanziaria che dagli interpreti, “in tutti i rapporti tributari, anche se sorti in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge n. 212 del 2000”. Sempre con il predetto arresto, la Suprema Corte ha affermato che ai sensi dell’art. 10 della L. 212/2000, i rapporti tra contribuenti ed Amministrazione finanziaria devono essere “improntati al principio della collaborazione e della buona fede”. Il principio dell’affidamento – esplicazione del criterio della buona fede – costituisce il risvolto soggettivo dell’esistenza di modelli di comportamento, in quanto le parti uniformano la loro condotta agli standard sociali e fanno affidamento sull’osservanza degli stessi, attendendosi dalla controparte il tipo di condotta normalmente tenuto in analoghe fattispecie. Ricordati questi concetti concernenti il fondamento ed il modo di operare della buona fede (rilevando che il principio doveva ritenersi presente nell’ordinamento fiscale ancor prima dello Statuto), la Corte ha chiarito che, essendo le attività dell’Amministrazione e del contribuente disciplinate, in linea di massima, dalla legge e svolte mediante atti formali, i principi di collaborazione e buona fede in campo tributario hanno, appunto, funzione integrativa della disciplina legislativa mediante doveri reciproci da essa non espressamente considerati e fondati proprio sull’osservanza o sulla violazione di detti canoni. In particolare quanto all’affidamento, il giudice di legittimità ha osservato che esso può essere ingenerato nel contribuente dall’accettazione espressa o tacita, da parte dell’Amministrazione, di un comportamento del contribuente, ciò che alimenta il ragionevole convincimento del medesimo di avere operato in conformità alla legge, ed il cui affidamento legittimo deve essere perciò tutelato. L’aspetto più interessante della pronunzia, di grande rilievo pratico e sistematico, si riscontra proprio in relazione al tipo di tutela, essendosi ritenuto che, accertata la sussistenza dei presupposti dell’affidamento legittimo, la tutela del contribuente non è limitata all’inapplicabilità delle sanzioni e/o degli interessi moratori, così come può apparire – prima facie – dal disposto dell’art. 10, bensì vincola l’Amministrazione alla determinazione nella quale egli aveva confidato. Rebus sic stantibus, al principio di affidamento si riconosce una forza ed una capacità espansiva che travalica le fattispecie previste dall’articolo de quo, le quali, quindi, nell’ottica della sentenza hanno valore meramente esemplificativo, dovendosi la disposizione non solo ritenersi estesa ad una serie indeterminata di casi, ma anche rilevante in sede processuale, con riferimento all’onere della prova ex art. 2697 cod. civ. e al potere del giudice di trarre argomenti di prova dal comportamento delle parti, ex art. 116 cod. proc. civ. In tale ultimo senso, giova segnalare la sentenza n. 21209 del 5 novembre 2004, con la quale la Corte di Cassazione ha stabilito che nell’ambito del processo tributario, l’ Amministrazione deve prendere posizione sui fatti dedotti dal contribuente, perché, in mancanza, il giudice può desumere argomenti di prova da tale suo comportamento, ai sensi dell’art. 116 cod. proc.civ. (Cfr., ex pluribus, Cass., 14 novembre 2001, n. 14141, Cass., 5 ottobre 2001, n. 12284; Cass., 10 febbraio 2001, n. 1930; Cass., 20 giugno 2000, n. 8340). Va infine sottolineato come la Corte Costituzionale, con un revirement de jurisprudence, abbia ritenuto applicabili, nel contenzioso tributario, i principi racchiusi nella nozione di giusto processo, in quanto insiti nello Statuto del contribuente (Cfr., C.Cost., 12 luglio 2005, n. 274).
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